Una natura morta del XVII secolo. Un’insegna al neon. Una fotografia di un atletico nudo maschile. Un’istallazione site-specific che ha a che fare con il CERN di Ginevra… Se vi dicessimo che esiste un solo filo conduttore tra queste opere, ci credereste? Non è la strampalata parodia di qualche fantasioso programma televisivo, ma un delicato e colto gioco di intrecci che ruota attorno a uno dei temi più antichi, intimi e ricorrenti dell’intera storia umana. Curiosi? Scettici? E se aggiungessimo che dietro a tutto ciò c’è il Museo Ettore Fico, la cosa non inizia a farsi veramente interessante?
Il MEF – che ha da poco festeggiato il suo primo compleanno, chiudendo un anno di attività incredibilmente positivo
– ridisegna ancora una volta i suoi splendidi spazi per ospitare non una ma ben cinque esposizioni temporanee. La prima buona nuova, va detto subito, è che possiamo tornare a scoprire nuovi nuclei dell’opera di Ettore Fico stesso, che a grande richiesta torna a occupare uno spazio rilevante nell’offerta di questo poliedrico museo. La mostra Ettore Fico. Paesaggi, nature morte e astrazioni degli anni Sessanta si dipana attraverso un vasto corpus composto in un momento fortunato della produzione dell’artista e ne rivela l’universo personale, tra componente figurativa e pura astrazione.
Ma vi starete ancora scervellando sull’interrogativo da cui siamo partiti; la chiave dell’enigma è perentoriamente espressa in una celebre sentenza del Qoelet, uno dei sette Libri Sapienziali della Bibbia: «Vanitas vanitatum et omnia vanitas» che, parafrasando, significa che ogni aspetto della vita terrena è temporaneo e l’esistenza non è che miseria ed inevitabile procedere verso la morte. Vanità/Vanitas è quindi il titolo dell’articolato evento espositivo che animerà il MEF dal 31 ottobre 2015 al 28 febbraio 2016. La riflessione sulla caducità dei beni materiali e il tentativo da parte degli uomini di trovare consolazione al loro destino mortale accompagna da sempre la produzione artistica. Il MEF ci offre l’opportunità di vedere come questa tematica sia stata declinata in forme e modi differenti, scegliendo quattro percorsi esemplificativi che vanno dal Seicento fino ai giorni nostri.
Serrato e ricco di stupefacenti similitudini è il dialogo tra le nature morte prodotte in ambito europeo tra le fine del XVI e l’inizio del XVII secolo (Il silenzio delle cose. Vanitas, allegorie e nature morte dalle collezioni italiane, a cura di Davide Dotti) e le opere d’arte contemporanea della mostra Non la parola fine ma la fine delle parole. Da una parte si ammirano le preziose composizioni di elementi allegorici dette propriamente vanitas, un genere fiorito in Olanda nei primissimi anni del Seicento in adesione alla rigida morale calvinista, atto alla trasmissione di precetti religiosi e morali mediante il ricorso a simboli precisi, scelti per invitare l’uomo a considerare la transitorietà e la fragilità delle glorie terrene e a ricercare la pace soltanto nella fede. Dall’altra, le domande dell’uomo sull’aldiquà e l’aldilà riecheggiano in oltre 50 opere raccolte in differenti anni tra le maggiori gallerie internazionale dal collezionista Renato Alpegiani e ora donate in forma permanente al MEF. In questa dialettica trovano posto capolavori assoluti, come la Composizione di strumenti musicali e mela di Evaristo Baschenis o il Piatto di pesche di Ambrogio Figino che vanno a instaurare un confronto silenzioso ma profondissimo, a tratti commovente, a tratti angoscioso o, al contrario, consolante, con le opere di artisti contemporanei come Carol Rama o Stefano Arienti.
Quando l’iconografia laica delle vanitas incontra la tradizione figurativa italiana, prendono vita raffinate allegorie: seducenti corpi femminili che incarnano l’ideale della caducità della vita, figure mitologiche o ritratti di vecchi e di straccioni giocati sul gusto per la resa scrupolosa delle rughe e delle brutture. È sul terreno della raffigurazione umana che il tema della vanitas trova un’ulteriore declinazione con la mostra Corpi atletici. Dieux du Stade: le fotografie del francese Fred Goudon ritraggono atleti di fama mondiale, in pose che ne celebrano la bellezza e la possanza fisica, tale da avvicinare i mortali agli dèi.
Il principale mezzo con cui oggi l’uomo indaga i misteri della vita, cercando risposta ai quesiti che lo assillano sin dai tempi più remoti, è la scienza. L’ultimo collegamento concettuale offertoci dal MEF sul tema della Vanità/Vanitas, The Messangers of Gravity, consiste nelle opere realizzate dall’artista Luca Pozzi (vincitore del Premio Fondazione Ettore Fico del 2012) appositamente per gli spazi del MEF, frutto della sua collaborazione con i ricercatori del CMS Experiment-CERN. L’artista getta un ponte tra arte e scienza: il protagonista delle opere è il Compact Muon Solenoid (CMS), il gigantesco rivelatore di particelle incaricato di esaminare le centinaia di migliaia di collisioni di materia che avvengono all’interno del più grande acceleratore di particelle al mondo, alla ricerca dei segreti del cosmo e della creazione.
Ancora una volta, il Museo Ettore Fico si propone come acceleratore di domande, di connessioni mentali, di confronti intimi e personali, suggerendo un argomento di folgorante ricchezza ed attualità per poi invitare ciascuno dei visitatori a cercare e a percorrere la propria strada interpretativa all’interno delle collezioni. Se non avete paura di guardarvi dentro e scoprire quanto le vostre domande siano vicine a quelle che hanno saputo trasmettere uomini e artisti di tutti i tempi, l’occasione è da non perdere. Se al contrario non siete in vena di introspezioni e di considerazioni esistenziali, potete scegliere di limitarvi a conoscere e a godere esteticamente di una delle più articolate e stimolanti mostre dell’autunno torinese; in nessuno dei due casi rimarrete delusi.
Giulia Venuti