Siamo nel cuore dello storico stabilimento della FIAT-Lingotto, un edificio che con la sua struttura in cemento armato impostata su una maglia di ciclopici pilastri, le rampe elicoidali alle estremità dell’edificio e la pista di prova delle autovetture sul tetto, nel 1923 catapulta Torino tra le città capaci dei migliori esempi di modernità edilizia, facendo esclamare a Le Corbusier che si tratta di «uno degli spettacoli più impressionanti che l’industria abbia mai offerto». Macchine che sfrecciano, velocità, modernità, trasformazione industriale, prestigio internazionale: il Lingotto è da sempre simbolo di tutto ciò, ma a qualcuno ancora non bastava.
Secondo John Elkann, da tempo Gianni Agnelli desiderava «fare qualcosa per la sua città, qualcosa che dicesse quanto è forte il suo legame con questa terra, […] qualcosa che duri nel tempo e sia capace di rafforzare la visibilità e il prestigio internazionale di Torino». Così, il 20 settembre 2002 (pochi mesi prima della scomparsa dell’Avvocato) s’inaugurava la Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli, un viaggio emozionante attraverso l’arte dal Sette al Novecento, fatto attraverso la passione degli stessi collezionisti per l’universo artistico. Una passione sperimentata in prima persona da Marella, che è tutt’ora un’apprezzata designer di tessuti d’arredo ed in passato ha lavorato come fotografa per riviste come Vogue ed ha ottenuto notevoli consensi anche soltanto per la sua innata eleganza (è stata ritratta persino da Andy Warhol in un’opera del 1973); vissuta attraverso il collezionismo da Gianni, che per i suoi acquisti seguiva un principio puramente estetico, legato al personale apprezzamento sensuale delle opere, a prescindere da valutazioni di firma o di appartenenza a un dato periodo storico.
Non è un caso che, come sede della Pinacoteca Agnelli, l’archistar Renzo Piano abbia creato un gioiellino di lamiera d’acciaio e di vetro, incastonato come una gemma al centro dello stesso Lingotto, un vero e proprio Scrigno, questo è il nome con cui l’architettura è anche nota ai torinesi. La collezione permanente di venticinque opere (di cui due sculture) è di una ricchezza e di una bellezza sorprendente ma per qualche verso nascosta, meta meno ossessiva dei turisti, sospesa oniricamente nel cielo del Lingotto. Per chi la sa scovare e conoscere, si svela un nuovo volto della città: lo storico edificio industriale, l’architettura di Piano, la personalità dei due collezionisti che ne permea le sale e le opere conservate danno vita nella Pinacoteca a un’incredibile sinergia, capace di parlare della storia di Torino così come del suo presente e dei suoi sogni futuri.
Ma c’è spazio per un’ulteriore sorpresa: dal 16 marzo al 28 giugno il percorso si arricchisce di uno straordinario prestito dal Museo di Capodimonte di Napoli, la cosiddetta Madonna del Divino Amore, eseguita probabilmente nel 1516. Nella mostra allestita nelle apposite sale della Pinacoteca, gli occhi sono tutti per lei: grazie al supporto di materiali digitali e dei confronti con importanti disegni sullo stesso tema, le discipline della storia dell’arte e del restauro rivendicano a pieno diritto una verità da tempo negata, ovvero la paternità raffaellesca dell’opera. Vasari ne era stato il primo sostenitore e nella Vita di Raffaello ne parlava come una delle più belle opere del periodo romano dell’urbinate, dipinta per Lionello da Carpi signore di Meldola e in seguito acquistata da Alessandro Farnese nel 1565. Ma nell’Ottocento la scoperta di un analogo disegno di Giovan Francesco Penni, allievo di Raffaello, scambiato per un disegno preparatorio poiché le sue dimensioni erano uguali a quelle del dipinto, confermò i dubbi già sollevati sulla tavola in ragione dello scurimento dei colori che da tempo non ne permetteva più il pieno apprezzamento. La composizione armonica ed equilibrata del gruppo sacro continuava a far pensare a molti a un’idea di Raffaello, lasciando ampio spazio al dibattito sulla paternità del dipinto fino ai giorni nostri: pochi anni fa, una riflettografia rivelava il disegno preparatorio eseguito da Raffaello stesso direttamente sulla tavola, dando testimonianza anche dei numerosi pentimenti dell’artista.
Finalmente, il restauro della tavola curato nel 2012, si svela alla Pinacoteca potenziato da un allestimento sobrio e quasi religioso; oltre alla bellezza dei colori, alla tenerezza dei gesti e al respiro della composizione avvertiamo la vertigine di un immagine strappata al tempo, di una meraviglia che non potevamo perdere, di una sfida vinta giocando a dadi con i secoli e i loro inganni. Avvertiamo la bellezza ed il senso di riconoscenza per coloro che l’hanno donata ai nostri sguardi commossi.
Giulia Venuti