Chiedi a un torinese di descrivere il quartiere “Barriera di Milano” e probabilmente ti dirà che è una zona industriale e periferica, ingrigita e un po’ trascurata, dove la massima attrazione è costituita da enormi centri commerciali in cui fare le classiche “vasche” al sabato pomeriggio (no, non è il raduno nazionale degli idraulici, ma il termine con cui il giovane torinese indica l’abitudine di camminare su e giù ammirando i negozi) e scheletri di vecchie fabbriche abbandonate al loro lento ma inesorabile decadimento. Se poi, insistendo, cercherai di sapere se c’è qualcosa di interessante per un turista o semplicemente per un appassionato d’arte, nella maggior parte dei casi riscuoterai soltanto espressioni un po’ vaghe e sbalordite, forse addirittura sospettose (da questi amanti dell’arte contemporanea ci si può aspettare di tutto… che abbiano dichiarato lo svincolo del Raccordo Torino-Caselle Patrimonio dell’Umanità?!), ma infine risolutamente convinte che no, non c’è davvero granché da vedere.
Se è così, vuol dire che il vostro intervistato non fa un giretto appena fuori dal centro città da un po’ e che non è nemmeno un cittadino molto informato: quelle che vi ha rifilato non sono altro che i vecchi luoghi comuni su un quartiere che da qualche anno a questa parte è interessato da uno sventramento tumultuoso ed eccezionale, che sta completamente ridefinendo, oltre all’assetto urbanistico, l’identità culturale e sociale: non più scenario da “provincia meccanica”, ma quartiere multietnico, vivace, creativo.
Simbolo e centro ideale di questo risanamento è il Museo Ettore Fico (MEF), inaugurato a fine settembre 2014 all’interno di una vecchia fabbrica di componenti elettrici. Basta varcare l’ingresso e lasciarsi alle spalle la trafficata via Cigna, per rimanere subito colpiti dalla raffinatezza dell’intervento di recupero industriale, opera dell’architetto Alex Cepernich e del direttore Andrea Busto, con cui l’edificio è stato trasformato in un contenitore di luce e spazi sempre rinnovabili. Un’architettura spettacolare e impressionante per le dimensioni (100 metri di lunghezza per un massimo di 17 di altezza), bellissima cornice per le esposizioni, gli eventi, le attività didattiche e i workshop che in questi pochi mesi sono già diventati appuntamenti amatissimi e frequentatissimi da una variegata massa di fruitori.
Scoprire il Museo Ettore Fico vuol dire innanzitutto conoscerne la vocazione ad essere “più di un museo su Ettore Fico”: infatti, dopo la splendida retrospettiva sull’artista biellese con cui il museo ha preso vita, le sue grandi e coloratissime opere hanno lasciato spazio a nuove interessanti mostre che si protrarranno fino a fine giugno, ovvero Jacques Henri Lartigue, Plastic Days e Anita Molinero. Opere e Installazioni, a cui ne seguiranno molte altre.
Perché al MEF si pensa in grande: la mission è proprio quella di “essere più di un museo”. Per farlo si propone di dare impulso a processi positivi di integrazione sociale e di accrescimento culturale, per un ambiente in cui i differenti linguaggi artistici possano essere scoperti e sperimentati in prima persona dagli utenti, favorendo la creazione di percorsi di riflessione interdisciplinari, tra arte, design, cultura. È così che tra opere apparentemente distanti tra loro si stabilisce un gioco di rimandi estetici e concettuali, talvolta ironici, talvolta curiosi, oppure dotti e raffinati, in ogni caso sempre fonte di arricchimento per il visitatore che sa coglierli o inventarli ex novo, partecipando concretamente a una continua ridefinizione dell’esperienza museale.
Proviamo, per fare un esempio, a scegliere un filo conduttore e dipanarlo attraverso le sale del museo: alla spensieratezza della Belle Époque immortalata dall’obiettivo di Lartigue, fotografo per vocazione capace di sperimentare in maniera del tutto spontanea alcuni dei più efficaci espedienti tecnici dell’arte fotografica, fanno riscontro i portasigarette, i pettini, i fermagli, i “gioielli da lutto” prodotti nelle più disparate paleo-plastiche agli inizi del Novecento; con lo sviluppo dei primi materiali completamente sintetici e alla loro invasione nel mondo del design, dell’elettronica, dei giocattoli, dialogano le istallazioni di Anita Molinero basate sul recupero di “scorie urbane” come le plastiche, e sulla loro manipolazione e assemblaggio con procedimenti differenti in spirito pop o provocatorio.
Funziona! È stimolante e formativo, si può ricominciare all’infinito… Riproviamo: ora scelgo un ritratto di Renée, affascinante amante di Lartigue, con il rossetto scuro e provocanti calze di seta; poi scopro vagando tra gli oggetti di Plastic Days che grazie all’applicazione del nylon all’industria della lingerie, i collant divennero un’arma di seduzione finalmente accessibile a tutte le donne, cambiando drasticamente l’universo di riferimento di un materiale che era nato nell’industria bellica americana come fibra sintetica adatta a uniformi e paracaduti, il cui nome si vociferava tra i soldati augurasse Now You Lose, Old Nippon!… E alla guerra in qualche modo mi riporta un’opera di Anita Molinero, un assemblaggio di blocchi di cemento frantumati e arrugginiti cavi di ferro…
Funziona anche così, e in mille altri modi. Provare per credere, mettetevi in gioco con tutte le vostre nozioni, conoscenze, impressioni, percezioni e preparatevi per aprirvi ad un’esperienza che demolisce le barriere mentali e i luoghi comuni, percorrendo le sale di un museo che sa custodire e comunicare il valore della complessità del mondo contemporaneo. Tutto questo, e molto altro, è il Museo Ettore Fico!
Giulia Venuti