Voluto da re Carlo Felice, il Museo Egizio di Torino deve il suo nucleo fondante a Bernardino Drovetti, console generale di Francia in epoca napoleonica che, così come moltissimi visitatori oggi, pur non avendo compiuto studi storici o archeologici, rimase affascinato dalla cultura dell’antico Egitto, dando inizio a una sua personale raccolta di manufatti e reperti antichi. Ampliatosi nel corso del ‘900 grazie a intense, e spesso fortunate, campagne di scavo condotte da importanti archeologi quali Ernesto Schiapparelli e Giulio Farina, il museo si era negli ultimi anni trovato quasi sacrificato nelle non sufficienti sale dello storico edificio del Collegio dei Nobili, rendendo necessaria una lunga fase di lavori di riallestimento.
Ma finalmente, dopo tre anni di riorganizzazione, restauri e chiusure parziali, da aprile 2015 è come se i reperti che tanto avevano faticato a emergere dagli scavi degli archeologici all’inizio del secolo scorso venissero scoperti una seconda volta, grazie a un nuovo straordinario allestimento. Organizzato come un modernissimo aeroporto, in cui il costante flusso di scolaresche e di gruppi viene costantemente monitorato grazie a un localizzatore (RFID) inserito nel braccialetto color turchese dato a ogni visitatore, il museo offre oggi videoguide, ricostruzioni 3D e percorsi personalizzabili per far fruire al pubblico in maniera moderna manufatti “vecchi” di oltre cinquemila anni.
In un allestimento semplice e cronologico, si attraversano quindi più di 3 millenni di storia, dalle prime terracotte di Naqqada, agli ultimi manufatti che già risentono dell’influenza stilistica dei Romani, che nel 30 a.C. porranno fine alla storia del Regno d’Egitto.
Come tutti noi abbiamo imparato sin dalle scuole elementari, la credenza in una realtà ultraterrena da parte degli Egizi permise lo sviluppo di un complesso culto in cui la sopravvivenza dell’anima del defunto era necessariamente condizionata dalla presenza di tre fattori: una solida abitazione – le mastabe prima e le piramidi poi –, l’integrità del corpo terreno – ottenuta grazie alla mummificazione – e utensil
i e viveri per affrontare il viaggio nell’aldilà e la nuova vita. La parte più consistente dei reperti presenti in museo è quindi legata alla sfera religiosa, che non comprende dunque solo oggetti devozionali, amuleti, sarcofagi e formule magiche, ma offre anche uno spaccato della quotidianità del tempo, con centinaia di vestiti, sandali, specchi, utensili per il trucco, giochi di società, anfore ancora piene di cibi, anch’essi conservatisi, e bellissimi ostraka – frammenti di vasellame usati come “fogli di brutta” dagli abitanti di Deir al Medina per prendere appunti, mandare messaggi o fare schizzi per delle più complesse pitture murali.
Una sintesi di tutto quello che una tomba egizia poteva ospitare è offerto dal caso straordinario di Kha e Merit, coppia di sposi le cui vite si svelano davanti ai nostri occhi grazie al ritrovamento della loro sepoltura in condizioni integre, senza che vandali o ladri abbiano avuto la possibilità nel corso dei secoli di depredare quanto di più caro i due avevano voluto portare con sé nell’aldilà. Ecco che quindi si scopre come l’architetto della necropoli reale, Kha, non solo custodiva gelosamente il suo cubito, una sorta di righello di legno ricoperto da una foglia d’oro donatogli dal faraone Amenhotep II, ma era anche affezionatissimo al suo rasoio personale, alle sue creme e ai suoi co
smetici, che, come recita l’indicazione su un vasetto, usava quotidianamente. La passione per il suo lavoro e la cura per il suo aspetto fisico erano seconde solo al grande affetto che lo legava alla moglie Merit, alla quale, vista la morte precoce di lei, cedette il lussuoso sarcofago che aveva preventivamente fatto realizzare per se stesso. L’elegante sepoltura è degna di una donna elegante e raffinata, che scelse di portare nell’aldilà anche il suo set da trucco, con tanto di kajal, e l’elegante parrucca, che ha conservato perfettamente l’acconciatura composta da fitte treccine.
Complice il clima secco e ventilato delle terre desertiche, oggetti, pitture, papiri e mummie dell’antico Egitto si sono perfettamente conservanti, conservando ancora oggi gli stessi brillanti colori che era possibile ammirare all’epoca dei grandi faraoni, la cui magnificenza è chiaramente percepibile nella sala dello statuario: le luci suffuse e il gioco di specchi, ideato dallo scenografo Dante Ferretti, creano un’atmosfera quasi devozionale in cui gli oggetti di venerazione sono i sovrani stessi.
Non c’è che dire: il Museo Egizio, nonostante abbia già incantato generazioni di torinesi e di turisti da tutto il mondo, non smette mai di stupire e scoprire il nuovo allestimento è la migliore occasione per rimanere ancora una volta a bocca aperta a sognare le piramidi.
Sara Vescovo