Basilico_FicoL’ingresso del Museo è un grande imbuto nero che proietta il visitatore in un corridoio stretto e alto che si riapre al fondo in uno spazio bianchissimo inondato di luce. Questo gioco purissimo ed essenziale di bianchi e di neri è sublimato, in questo periodo, dagli scatti di Gabriele Basilico all’interno della mostra inaugurata il 10 aprile ed aperta fino al 14 luglio.

Fotografo di fama internazionale, ma prima di tutto architetto, Basilico segue i primi tre anni di università prima di ritrovarsi a Torino per il servizio militare alla caserma Cavour. Tornato a Milano dopo il congedo scopre che tutto è cambiato: “All’università non si disegnava più perché sui tavoli ci si sedeva”; così nel caos eccitante delle manifestazioni studentesche è con la macchina fotografica che trova il suo “modo di testimoniare e partecipare al cambiamento”.

Pur avendo preso confidenza col mezzo fotografico negli anni delle contestazioni Basilico trova quello che sarà il suo linguaggio iconico solo nel 1978, precisamente il giorno di Pasqua, quando comincia a ritrarre le periferie di Milano, ispirandosi a due grandi maestri, i coniugi tedeschi Bernt e Hilla Becker che viaggiano tra Germania e stati limitrofi per catalogare col banco ottico edifici industriali dismessi.

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E’ da questo momento che Basilico comincia consapevolmente a raccontare lo spazio urbano cercando “come un rabdomante” il punto di vista perfetto, non diversamente da quello che facevano, nel Settecento, i pittori vedutisti.

E’ sicuramente per queste tangenze che nel 2010, in occasione di una grande mostra dedicata all’incisore veneto, la Fondazione Cini di Venezia ha commissionato al fotografo trentadue scatti che riprendessero col medesimo punto di vista i monumenti incisi dal grande Giovanni Battista Piranesi trecento anni prima.

I dittici presenti nel corridoio con le incisioni di Piranesi e le fotografie di Basilico accostate costituiscono la spina dorsale della mostra e raccontano a volte l’impossibilità della ripresa dell’identico punto di osservazione di Piranesi a causa di modifiche edilizie stratificate negli anni, altre invece dell’immobilità del tempo che preserva e mantiene.

Inoltrandosi però nelle stanze della mostra, un po’ come parentesi del corridoio, entriamo in altre città, osserviamo il silenzio monumentale di New York, di Rio, di Milano, di Dieppe. Di Beirut, ferita dalla guerra della quale dice: “non volevo fare il Piranesi della situazione, non volevo fare un lavoro estetizzante sulle rovine”. Vicinanza stilistica col maestro quindi, ma non sempre d’intenti, laddove vince un forte senso etico.

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Il silenzio, la monumentalità, la staticità quasi sacra di questi perfetti monocromi (anche le rare immagini a colori sono cromaticamente sobrissime) vengono sciolti completamente al piano superiore dove con un po’ di vertigine iniziale ci si immerge nei colori decisi di Ettore Fico.

Artista piemontese classe 1917, studia pittura all’Accademia Albertina col maestro Serralunga. Partito per la seconda guerra mondiale, viene fatto prigioniero dagli inglesi in Algeria e ottiene il permesso di dipingere e di girare libero per il mercato e il porto di Algeri con tanto di autista pronto a scarrozzarlo in giro a suo piacimento cercando soggetti da ritrarre.

Come uno dei suoi maestri, Matisse, in nord Africa scopre colori mai visti nella tenue campagna piemontese, colori che stenderà sulle sue tele al ritorno a casa.

Per quanto diversissima da Basilico anche per Fico la dimensione urbana è importante, ma è filtrata dalla finestra del suo studio che incornicia i tetti dirimpetto o rappresentata dalle baracche di periferia e i cavi dell’elettricità che il pennino con l’inchiostro di china aggroviglia sul foglio.

Basilico_Fico La grande dimensione dei dipinti che vengono presentati in questa mostra permette allo spettatore di entrare nel quadro, di sostituirsi al pittore attraverso il suo sguardo, di immaginarsi davanti al tavolino con natura morta sotto la finestra di matissiana memoria, o in mezzo a un campo di sterpaglie delle quali la pennellata densa racconta la tattilità pungente, o ancora immerso nel colore puro che l’astrazione totale vorrebbe fiori.

Si esce dal confronto tra questi due artisti un poco storditi. Positivamente storditi perché vengono così azzardatamente accostate due facce estremamente diverse nello stile, negli intenti e nel mezzo di un unico linguaggio, l’arte. Sta allo spettatore decidere dove preferisce abitare.

Elena Patrignani

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